Il 2016 sembra essere l’anno d’oro del cinema italiano. A
confermarlo bastano gli ottimi risultati ottenuti da Lo chiamavano Jeeg Robot di
Gabriele Mainetti e Non essere cattivo di Claudio Caligari: il primo
pluripremiato agli ultimi David di Donatello e campione d’incassi; il secondo
acclamatissimo dalla critica. Sulla stessa scia, sono però poi arrivati Veloce
come il vento per la regia di Matteo Rovere e solo ultimamente La
pazza gioia di Paolo Virzì, poco acclamato dalla critica e considerato
alquanto commerciale (e affatto d’autore, nonostante sia stato presentato a Cannes
e stia facendo incetta di candidature ai Nastri d’Argento). Sicuramente non un
film al pari delle già citate pellicole di Mainetti e Caligari, ma La
pazza gioia, seppur poco originale nella scelta dei temi trattati e a
volte poco rispettoso del corpo delle attrici (purtroppo trovo molto “italiano”
il dover per forza strumentalizzare e sessualizzare un corpo femminile),
continua ad alimentare le speranze per una vera e propria rinascita del cinema
nostrano, capace di regalare capolavori, ma anche tragicommedie decisamente pop,
senza cadere nel trash da cinepanettone.
La tematica scelta dal regista toscano risulta alquanto
ostica, seppur affatto originale: la follia. Lo spettatore si ritrova subito
catapultato a Villa Biondi, una struttura che si prende cura di donne con
problemi psichiatrici: niente pareti bianche da ospedale e infermieri molesti
stile Qualcuno volò sul nido del cuculo;
anzi, tutt’altro. Villa Biondi è più un’utopia
psichiatrica, in cui ognuna delle pazienti viene consolata e assecondata
nelle proprie manie, in un ambiente armonioso e quasi familiare. Qui, conosciamo subito una delle protagoniste,
Beatrice Morandini Valdirana,
un’aristocratica decaduta, impicciona e impossibile da far tacere. A cambiarle
la vita sarà la nuova arrivata, Donatella
Morelli, una giovane ragazza, tanto misteriosa quanto malinconica, che
scappa dalla realtà ascoltando costantemente Senza fine di Gino Paoli, vera colonna sonora del film.
Inizialmente, le due donne non sembrano andare molto d’accordo, data la loro
apparente diversità; ma in realtà, a legarle, non sarà solo la loro condizione,
ma l’incredibile voglia di trovare la felicità, che se per Beatrice consiste
negli abiti lussuosi e nelle cene in ristoranti costosissimi, per Donatella,
ragazza ben più semplice, consiste nel poter rivedere il suo bambino. La storia inizia con il mare:
soggetto più volte ripreso dai cineasti di tutto il mondo, che simboleggia, data
la sua vastità la fuga provocata dalla voglia di evasione dalle costrizioni
sociali. Non a caso, anche questo film ruota attorno al mare e al suo carico
simbolico. Una pellicola a tratti onirica, anche grazie ai colori sapientemente
saturati dal direttore della fotografia, Vladan Radovic, che strizza l’occhio
al Fellini a colori di Giulietta degli spiriti.
Niente di nuovo a livello stilistico insomma, in un film che prende spunto dal
grande cinema retrò.
Di primo acchito
si potrebbe dire che La pazza gioia sia un film che parla
di riscatto sociale, con una trama che strizza l’occhio anche agli ideali
femministi, con le nostre due Thelma e
Louise (egregiamente interpretate da Valeria Bruni Tedeschi e Micaela
Ramazzotti), bistrattate da tutti gli uomini della loro vita, che trovano un
barlume di speranza nella loro folle amicizia. In realtà, vero protagonista
della pellicola è il sogno di essere finalmente libere. Forse più che di sogno,
sarebbe più appropriato parlare di delirio che sfuma solo dopo dolcemente verso
il sogno, fino a scontrarsi con la realtà, affatto crudele però. Sicuramente
non siamo di fronte ad un capolavoro, ma il dodicesimo lungometraggio di Virzì
merita di essere visto, senza pretese si intende: solo così ci possiamo godere
un film che sa emozionare. Non è forse questo quello che un film dovrebbe fare?