Preparare l'esame di letteratura russa, oltre a mandarmi ai pazzi, mi ha fatto scoprire quante opere sorprendenti abbia partorito l'intelligencija russa. Una di queste è senza dubbio Pietroburgo di Andrej Belyj, opera sconosciuta e quasi introvabile in Italia.
Come ben si può intendere dal titolo dell’opera, Pietroburgo (1911) di Andrej Belyj è un romanzo che ha, non solo come
ambientazione, ma anche come protagonista, la città fortemente voluta da Pietro I. Ma la Pietroburgo qui
descritta non è una “vera” capitale, come potrebbero risultare Roma o Mosca, ma
è, per l’autore, una mera costruzione
mentale. Infatti, nel prologo, lo scrittore afferma:
"Se poi ci si ostina a convalidare l’assurda leggenda che Mosca abbia una popolazione d’un milione e mezzo di abitanti, bisognerà riconoscere che la capitale sia Mosca, perché solo le capitali hanno una popolazione d’un milione e mezzo di anime, mentre le città provinciali non hanno, non hanno avuto e non avranno mai una popolazione così numerosa. Da questa assurda leggenda consegue che la capitale non è Pietroburgo. Se Pietroburgo non è la capitale, allora non c’è Pietroburgo. La sua esistenza è soltanto illusoria."
In un luogo del genere, si è incapaci di discernere
ciò che esiste e ciò che non esiste. Leggendo Pietroburgo, il lettore si trova ad affrontare un vero e proprio
dilemma ontologico: cosa, effettivamente, è
e cosa non è? Su questo gioco si
costruisce tutto il romanzo, che se fosse un film sarebbe un ammirevole thriller psicologico.
La trama (per quanto
frammentaria e sconnessa) ha come protagonisti un padre e un figlio: il padre è un
vecchio uomo di stato, brutto, fissato con la geometria e con un senso
dell’umorismo del tutto fuori luogo (tutto questo non può far altro che
stimolare nel lettore un senso di ribrezzo nei confronti di un personaggio
veramente bizzarro). Il figlio è un giovane pieno di complessi e di rimorsi. La situazione
familiare non è affatto rilassata: dopo che la moglie del vecchio scappa con un cantante italiano, padre e figlio non riescono a
riconciliarsi. Il vecchio vede nel figlio un poco di buono, pronto a
disonorare il buon nome della famiglia e capace solo di leggere libri di
filosofia; mentre il giovane vede nel padre la rappresentazione fisica
dei vecchi ideali e del potere statale russo. Belyj, attraverso la sua penna,
ci sa comunicare benissimo questi sentimenti; e come non potrebbe, considerando
che il difficile rapporto padre-figlio è uno dei motivi autobiografici del
romanzo?
Senza addentrarmi troppo nella trama, il romanzo riporta molti temi tanto cari alla letteratura russa: il parricidio, l'elemento orientale che incarna il male (il romanzo è ambientato nel 1905, quindi i rimandi alla guerra russo-giapponese non mancano), il dissidio interiore e la rivoluzione. Per me, un libro che tutti gli appassionati di letteratura (russa e non) dovrebbero conoscere.